Up in the air, Festival Internazionale del Cinema di Roma



di Jason Reitman


Reitman scrive un soggetto, parte per Como e lo porta a Clooney. Clooney lo legge, e lo accetta.
Se il binomio regista-attore protagonista è parte fondamentale per la riuscita di un film, la pellicola presentata dai due a Roma avrà senza dubbio pieni consensi tra il pubblico (e se pensiamo che alla terza replica festivaliera gli organizzatori sono stati costretti a spostare “Tra le nuvole” nella sala più grande dell’auditorium, a discapito della premiere del mediocre “Lang zai ji”, è segno che il successo sarà garantito).
Ryan Bingham è un uomo sempre in volo, affascinante, carismatico, dalla fede incrollabile per il proprio lavoro che gli permette di evitare per gran parte dell’anno l’unica cosa che gli va stretta: il deprimente ritorno a casa, della quale non sente mai necessità.
Il suo è un mestiere che, al momento, per contrappasso, è tra i pochi a non risentire il peso della disoccupazione negli Usa: Bingham, infatti, è pagato per togliere il lavoro alle persone; è quello che nessun dipendente vorrebbe mai incontrare.
A turbare la quiete della sua vita fatta di soldi, successo e continui viaggi per il paese (oltre al suo grande obiettivo: arrivare a 10 milioni di miglia) è un’ambiziosa ragazza (Anna Kendrick) che propone al direttore dell’azienda (il fedele Jason Bateman) un nuovo metodo che garantisce l’abbattimento dei costi lavorando in sede e “licenziando” il personale via internet.
La libertà e gli obiettivi messi in discussione, l’incontro con una donna in carriera (Vera Farmiga), con la quale avvia un’esilarante quanto assurdo approccio nel bar di un hotel e il riavvicinamento “forzato” alla famiglia che ormai lo considera quasi un estraneo, lo mettono di fronte alla sua assoluta mancanza di radici e pongono l’attenzione sulla possibilità di cambiare.
Il film mette in luce il grave problema economico-finanziario che affligge da lungo tempo gli Usa e il resto del mondo (Reitman indica come questo sia solo un aspetto del film e che per quel tema bisognerebbe vedere “Capitalism” di Moore), ma soprattutto si concentra sulla precarietà dei rapporti umani, una “esile” critica all’apologia dell’individualismo che, in un mondo in continua comunicazione e in cui la distanza è abbattuta da ogni punto di vista, è ormai paradossalmente una realtà assodata e che, nel particolare, rappresenta una sorta di sconfitta del sogno americano.
Reitman è cresciuto tecnicamente rispetto a Juno, ma la perfezione della sceneggiatura, che non crolla quasi mai, a lungo andare può diventare stucchevole (con persone che perdono il lavoro e sono portate a credere che sia meglio così…e qualcuno ci crede!), anche se non è la solita commedia americana che chiunque si potrebbe aspettare.
Si ride e ci si interroga (per carità, non a livello esistenziale!)
Da sottolineare, ma per pura curiosità, la presenza di comparse licenziate realmente nella vita vera.
Buon film, tanti applausi, ma pur avendo vari consensi, non avrà in concorso vita facile come fu per la novità “Juno”.

Patrizio Caruso

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