Sarebbe il caso di citare il titolo originale francese (un nome anglofilo con rimandi alle guerre stellari è notevolmente stonato con l’oggetto/film in questione): Frontière(s).
Quindi sia il confine tra gli stati, che colloca il nostro mondo diegetico in quel punto tra la Francia e il Belgio che è tutto un buco di miniera, ma anche i confini, plurale imperativo, luogo/non luogo al di là dei limiti della civiltà, dei limiti della ragione, dei limiti dell’odio quando il Male assume i colori della follia da Superuomo.
E’ in una reale situazione al limite, dopotutto, che nasce il film di Gens, quegli scontri di manifestanti che seguirono la vittoria dell’estrema destra nell’ormai lontano 2002. Un clima che da subito è proiettato in un mondo di violenza, di rapine, di spari e di pestaggi, e dove fin dall’inizio del racconto la gente muore per mano d’altri uomini. Per arrivare nel corso del film, attraverso un ritmo ben sostenuto e al di là dei clichè di genere mai troppo ovvi, all’inevitabile condensazione della rabbia umana in continui corpo a corpo mutilanti e sanguinosissimi, i giovani da un parte (esclusi, stranieri e sconosciuti quanto gli attori, molto bravi) e i vecchi conservatori dall’altra. La rabbia di vita e la repressione patriarcale.
Se da un lato la situazione scenica è l’esplicita riproposizione survival delle porte che non vanno aperte, con tanto di famiglia cannibalescamente folle di stampo nazionalsocialista, d’altra parte la critica progressista è degna figlia dell’esemplare supermarket antrofagocitante dell’off-Hollywood anni ‘70.
Gens non si ferma tuttavia a Hooper e Romero nelle sue citazioni: da postmodernista forse inconsapevole, o da semplice amante consapevole, il regista, prossimo allo sbarco californiano nel prossimo Hitman, fa apparire sulla scena Cronenberg, Stephen King, Alien, dando un assaggio di cinema americano in territorio gallico. Ma non è solo una questione di cinefilia, è anche una questione di stile: Xavier Gens è stato aiuto regista europeo di Frankenheimer, Tsui Hark, Ringo Lam, ed in questa sua opera prima la brillante lezione è evidente.
Dunque, uno splatter se non d’autore da bravo artigiano, dotato del necessario per non far sparire la tensione e la paura e quindi per far rimanere lo spettatore incollato alla storia. Dopotutto è lo scopo del cinema, credo.
Se c’è un limite in questo divertente seppur macabro film, è nella riproposizione di un vecchio problema del mondo di celluloide: il nazista folle. Il nazismo malato di complessi edipici e di bulimia. Di sfrontata e folle crudeltà.
Se la critica sociale è sperata da Gens, e pure bene seminata, il facile figuro del folle gerarca, in mezzo ad altri ben riusciti mattoni dell’horror perfetto (il sesso, i rapporti morbosi, la fame), dipinge l’atrocità storica ancora una volta del colore della follia, e non permette di arrivare al cuore del rifiuto: se fossero stati matti, i nazisti non avrebbero ottenuto il potere...
Riduzione troppo semplicistica, ecco, forse è questo che pecca nella scelta dell’antagonista. L’essere nazista alla fine diventa, in questo genere di film, solamente un appellativo altro e in più, senza scatenare riflessioni troppo profonde.
Uno spreco, insomma.
Ma non è questa che una piccola osservazione: nel complesso, Gens fa bene il suo lavoro, si discosta da una forte autorialità che potrebbe appartenergli come europeo e dimostra di saper lavorare nella cornice del genere.
Come a dire, il sangue è tanto ma non è gratuito in questi spazi di Frontière(s).
Ah, piccola nota finale: durante gli scontri iniziali proposti dal film, legati al contesto politico con la destra che ottiene le massime cariche, un commentatore tv riporta le accuse ufficiali ai facinorosi animatori degli scontri e duramente repressi dalla polizia. Credo che Gens abbia citato tutti, ma inconsapevolmente anche i cugini d’Oltralpe.
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